Interview by Francesco Paolo Sgarlata |
Il curriculum di Gianfranco Pasquino è di grandissimo spessore: laureato in Scienza politica con Norberto Bobbio e specializzato in Politica Comparata con Giovanni Sartori, ha insegnato scienza politica in diverse università in Italia e all’estero fino a diventare professore emerito all’Università di Bologna.
Fra i fondatori della “Rivista Italiana di Scienza Politica”, ne è stato Redattore Capo per sette lunghi anni (1971-1977) e condirettore dal 2000 al 2003. E’ anche stato Direttore della rivista “il Mulino” dal 1980 al 1984. Attualmente dirige la rivista di cultura “451”.
Ha svolto intensa attività di pubblicista collaborando al “Sole 24 Ore”, all’”Europeo” e a “la Repubblica” e ha scritto numerosi saggi, soprattutto di scienza politica, tra cui “L’Europa in trenta lezioni” (UTET).
Ed è proprio su questo suo libro che abbiamo avuto il piacere di porgli alcune domande.
Prof. Pasquino, conclusione del suo libro “L’Europa in trenta lezioni” (UTET 2017), Lei parla dell’Europa che vorrebbe, un’Europa destinata non alla “sopravvivenza o al declino” come diceva Delors, ma una realtà che riuscirà a progredire nel tempo. C’è l’Europa federale in fondo al nostro cammino?
Sarà un cammino lungo e faticoso, molto accidentato, con ostacoli frapposti da politici di mediocre qualità che pensano di trarre vantaggio dall’appartenenza all’Unione Europea senza contribuirvi, ma al fondo si troverà un’Europa federale. Non sarà la “fine della Storia” perché poi la faremo funzionare, la riformeremo, la perfezioneremo. Le premesse esistono già tutte. Forse sarà la crescita di un’opinione pubblica europea a fare compiere il salto decisivo. Forse appariranno sulla scena politici e intellettuali che metteranno il loro prestigio e le loro idee al servizio di un compito, più che storico, epocale.
Il referendum su Trattati internazionali – non possibile comunque in Italia – è strumento di democrazia oppure arma a disposizione di chi sa manipolare l’opinione pubblica a proprio piacimento?
I referendum, se correttamente organizzati, sono uno strumento irrinunciabile del repertorio democratico. Qualcuno vuole brandirlo contro l’Europa? Ne ha facoltà laddove le regole e le Costituzioni nazionali glielo consentono. La Brexit non è stata l’esito inevitabile di quel referendum, ma la conclusione quasi logica dell’ambiguità, della reticenza, dell’inadeguatezza dei Conservatori inglesi, ma anche di un decennio di critiche britanniche all’Unione Europea non sufficientemente contrastate dagli europeisti nel Regno Unito e dalle istituzioni europee. Impareranno gli orgogliosi abitanti di quelle isole che lo “splendido isolamento” di cui si sono vantati per secoli non è affatto splendido e sarà molto costoso, anche in termini di impoverimento culturale.
Con la Brexit l’Europa ci guadagna o ci perde?
La risposta giusta, politicamente corretta, la so, la so: ci perdiamo tutti. Chi vuole un’Europa più liberale e meno appesantita da regole forse ci perde di più di chi si accontenta dell’ordoliberalismo (con una pesante bardatura di regole) della Germania e dei suoi molti, troppi alleati che non sanno svincolarsi. Poi, certo, anche in termini economici e finanziari un’Europa senza la Gran Bretagna è inevitabilmente meno forte.
I partiti politici nazionali sono un freno allo sviluppo europeo o secondo lei ci vorrebbero dei veri e propri partiti sovranazionali?
Quel che rimane dei partiti, in molti paesi qualcosa di più che in Italia, non è ancora riuscito a trovare il modo per combinare e coordinare la sua indispensabile attività nazionale con un suo accresciuto ruolo sulla scena europea. Mi piacerebbe che nelle prossime elezioni del Parlamento Europeo i partiti, tutti i partiti, decidessero di mettere nelle loro liste metà candidati nazionali e metà candidati provenienti da paesi europei ai quali attribuire l’opportunità di fare una campagna elettorale davvero europea e europeistica. Sarebbe un segnale importantissimo.
Lei è a favore di un legame più stretto tra Unione Europea e cittadini europei. Come potrebbe concretizzarsi?
Anche in questo caso so qual è la risposta politicamente corretta: migliorare la comunicazione politica. Ovviamente, dovrebbero essere, anzitutto, le istituzioni europee a trovare modi e forme di questa comunicazione, ma il compito dovrebbe essere svolto anche dai parlamentari europei e dai loro assistenti. Infine, che bello sarebbe se i giornalisti e i commentatori riportassero con precisione, non i gossip e le veline dei loro governi/ministri nazionali, ma tutto quello, ed è moltissimo, che avviene nel Parlamento, nella Commissione, nelle riunioni dei capi di Stato e di governo.
Nel Suo libro lei parla dei processi decisionali dell’Unione Europea che spesso sono lenti e farraginosi. Quali funzionamenti bisognerebbe rivedere?
Nella misura del possibile, che credo sia ampia, bisognerebbe rendere i processi decisionali più snelli, riducendo drasticamente il sistema dei comitati e l’accesso di lobby e lobbisti, e accrescendo la trasparenza. Anche in questo caso, il compito dei mass media e di operatori preparati è assolutamente decisivo.